Não consigo ser moçambicana.
Arti, antropologie e patrimoni culturali a partire da Maputo
di Sandra Ferracuti
Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2020
Quaderni di antropologia museale n.2
ISBN 978-88-97035-64-0
Tra il 2005 e il 2010, accompagnata dallo sguardo critico e riflessivo dell’antropologia dei musei e dei patrimoni culturali che mi derivava dalla militanza nella Simbdea e nella redazione di Antropologia Museale, grazie a una borsa di studio per la ricerca di dottorato e il sostegno di Vincenzo Padiglione, mio tutor per quel progetto, ho potuto seguire da vicino e con una certa costanza l’interazione tra i sistemi globali dell’arte e del patrimonio culturale e la scena artistica e culturale di Maputo, la capitale del Mozambico.
Non arrivavo a Maputo da “africanista”, né da aspirante tale. Portavo a Maputo, sostanzialmente, le stesse domande sui meccanismi e sugli attori dei processi di trasformazione delle cose in storia che mi avevano portato, negli anni precedenti, ad Armungia (Cagliari) e Cerea (Verona) e che in seguito mi porteranno a Matera e Satriano di Lucania (Potenza). La scelta di questo nuovo terreno derivava da una storia di famiglia o, meglio, dal desiderio di ri-conoscere la parte della mia storia di famiglia che aveva avuto luogo in Mozambico. Considerati dal punto di vista delle tracce materiali e immateriali che questi luoghi avevano lasciato nella mia casa e nella mia storia di famiglia, tanto Armungia quanto Cerea, Matera e Satriano erano molto più lontane di Maputo, più esotiche per quella casa e quella storia, prima che fossi io a tessere legàmi tra quei luoghi e i Ferracuti, trasferendomi lì per qualche tempo. Giovanni Ferracuti, professore di architettura a Venezia scomparso nel 1996 e fratello di mio padre, ha passato molto tempo in Mozambico. Insieme all’architetto di nazionalità mozambicana José Forjaz, ha fondato la Facoltà di architettura (oggi Faculdade de Arquitectura e Planeamento Físico) dell’università Eduardo Mondlane (UEM) che ha sede nella capitale del paese. Nella casa in cui sono cresciuta, a Castel Gandolfo (Roma), aveva una delle sue basi anche lo zio Gianni, sempre in movimento.
Da adolescente, sugli scaffali della sua libreria ho trovato La Luna e i Falò, il primo libro di Cesare Pavese che ho amato. Nella stessa libreria, ricordo ‘da sempre’ anche la presenza di due leggerissime maschere di legno: una presenza familiare, sono ancora lì. Le due maschere sono la traccia materiale più evidente della parte mozambicana della storia della mia famiglia. Solo anni dopo la sua scomparsa,mentre mi avviavo anche io verso Maputo, mi sono accorta che Gianni aveva lasciato anche un biglietto all’interno di una di quelle maschere; un messaggio in una maschera, lanciato nel mare del tempo il 26 marzo 1987, da Maputo. Gianni scriveva che quelle maschere erano opera di scultori makonde che abitavano sugli altipiani di Cabo Delgado, nell’estremo nord del paese, al confine con la Tanzania. In quel biglietto raccontava quello che aveva imparato sulla danza del lipiko per cui erano state scolpite e descriveva questa danza come parte di un “sistema ideologico” e come una delle istanze in cui le società umane si ri-conoscono e ri-costruiscono il proprio mondo “danzandosi una nuova poesia”.
È stato inseguendo Gianni, inseguendo una storia di famiglia, insomma, che sono arrivata a Maputo. Una storia di famiglia che, evidentemente, è anche storia d’Europa, se in changana, la lingua più parlata nel sud del Mozambico, ancora capita di sentir chiamare Maputo xilunguine: “il posto dei bianchi”. Maputo, una città che ha portato per circa due secoli il nome di una persona nata in Portogallo: la già “Lourenço Marques”, dal nome di un mercante che si stabili nell’area nel XVI secolo, sede del governo coloniale portoghese fino al 1976. Come per la mia storia di famiglia, anche la storia africana d’Europa, nascosta perlopiù sotto il tappeto attentamente tessuto e ritessuto dell’immagine di un’Africa come “estremo altrove”, è lì dentro la maschera, basta accorgersi che dentro c’è un biglietto.
Sandra Ferracuti è un’antropologa culturale di formazione statunitense e italiana. Ha esperienza di ricerca etnografica negli Stati Uniti, in Italia, in Mozambico, in Germania e in Camerun e i suoi principali indirizzi di studio sono l’antropologia dei musei, dell’arte e dei patrimoni culturali. Negli ultimi anni il suo interesse per questi ambiti di studio si è soprattutto espresso in indagini sui “dialoghi” contemporanei, in contesti latu sensu museali, tra politiche e pratiche istituzionali del patrimonio culturale e performance di forme di cittadinanza locale, nazionale e globale espresse e rivendicate da altri attori sociali.
Nel 2005 è stata eletta membro del consiglio direttivo della Simbdea (Società Italiana per la Museografia e i Beni Demoetnoantropologici) e l’ha presieduto tra il 2013 e il 2016. Fa parte del comitato editoriale della rivista Antropologia Museale sin dalla sua nascita e ha insegnato Museologia, Antropologia dei patrimoni culturali e Antropologia culturale all’Università della Basilicata (Matera) dal 2010 al 2016. Da quell’anno dirige il Dipartimento Afrika del museo etnologico statale Linden-Museum Stuttgart, in Germania, per cui ha curato la mostra permanente Wo ist Afrika? Storytelling a European Collection (2019).